È il 28 agosto 1963. Ci sono più di 250.000 persone a Washington che guardano in direzione del Lincoln Memorial. Un enorme valanga di persone che guarda nella direzione di un solo uomo. Su quelli scalini, si muove il Reverendo Martin Luter King, pronto per il suo discorso.
Siamo nel 1963. Gli Stati Uniti d’America sono una polveriera per i diritti di eguaglianza e le discriminazioni razziali. Solo pochi mesi prima a maggio, in Alabama si erano verificate delle importanti proteste contro la polizia per la giustizia razziale e per i diritti civili degli afro-americani. La protesta pacifica era guidata dal Reverendo King. La sua casa, viene bombardata da quello che senza dubbio era un agente di polizia. Lui però non si arrende alla forza dell’odio. Lui continua il suo cammino verso i movimenti pacifici.
Solo tre mesi dopo il discorso di King a Washington, verrà assassinato il Presidente Kennedy, è un’America che non ha più certezze.
In questo 1963 Martin Luther King capisce che anche lui avrebbe fatto la stessa fine perché «questa è una società malata» diceva alla moglie Coretta.
Il 1963 non è però un anno isolato. La lotta ai diritti civili è cominciata nel 1940 e si porterà avanti a lungo, fino ad almeno il 1971 con i cosiddetti “riots” ovvero i disordini. Il Reverendo King non vedrà la fine di quelle lotte, perché morirà prima: il 4 aprile 1968. Menphis è il luogo che lo vede morire, assassinato da un proiettile calibro 30-60 di una Remington 760 sparato da James Earl Ray da una camera situata sul lato opposto della strada.
Tredici anni di lotta per i diritti civili, tredici anni dedicati ad un sogno, che non vedrà mai realizzato se non in piccole vittorie.
Tutti ricordano le sue parole, pronunciate dagli scalini del Lincoln Memorial. Dai più piccoli ai più grandi.
E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho un sogno. È un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.
Io ho un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.
Io ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.
Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho un sogno, oggi!
[…]
Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.
Mentre Martin Luther King pronunciava il suo lunghissimo e meraviglioso discorso, un bambino lo ascoltava nella pura incoscienza dell’infanzia. Lo ascoltava senza capire, senza comprendere la forza di quel sogno né probabilmente un sogno cosa sia. Migliaia di bambini ascoltano quel discorso, un discorso che rintoccherà per gli anni a venire, che nel tempo avrebbe creato una società più equa e giusta, che nel tempo avrebbe permesso quanto il Reverendo King desiderava.
Quel bambino era Barack Obama Jr. Obama Jr. aveva due anni nel 1963. Figlio di una madre originaria del Kansas e un padre Kenyota, figlio dell’innocenza e della giovinezza e della natura libertina degli anni ’60, il piccolo Houssein non ha un’infanzia semplice. Infatti, il 1963 è anche l’anno in cui la relazione dei suoi genitori comincia a traballare, per poi rompersi l’anno successivo. Dopo un anno in Inghilterra, la madre e il bambino tornano Seattle. Il padre resterà ad Oxford in onore dei propri sogni. Visiterà il figlio una sola volta, nel 1971 quando lui aveva 10 anni.
Tra la natura ancora poco accogliente degli US e il suo contemporaneo cammino di redenzione, qui cresce l’indole determinata e ambiziosa di Obama Jr. Un cammino costellato di difficoltà e di quella che lui chiama “l’innocenza perduta”, ovvero quando scopri di essere “diverso” e scopri quindi cosa sia l’odio razziale.
Storie difficili da raccontare che, nel tempo, Obama Jr. cerca di mettere insieme con fatica mentre scrive la sua autobiografia. Nell’introduzione della stessa parla di quella lotta che ancora continua nelle strade degli Stati Uniti. Una lotta che è cambiata negli anni, così come sono cambiati gli animi delle persone che la vivono, la praticano, la subiscono. La sua autobiografia “I sogni di mio padre” ad un certo punto rivela
Non colpevolizzo le persone per la loro diffidenza. Ho imparato ormai a non dare peso alla mia infanzia e alle storie che l’hanno plasmata. Fu solo quando mi sedetti sulla tomba di mio padre e gli parlai attraverso la terra rossa dell’Africa che riuscii ad aprire gli occhi sul mio passato e a dare il giusto peso a quei racconti. Per essere più precisi, fu solo allora che mi resi conto che avevo passato gran parte della mia vita a cercare di riscrivere quelle storie tappando i buchi della narrazione, aggiustando particolari spiacevoli, scagliando le scelte individuali contro il flusso cieco della storia nella speranza di estrarre solide verità da trasmettere ai miei figli non ancora nati.
Eppure la sua caparbietà e la sua determinazione, guidano il suo cammino.
Il sogno che rincorre da tempo forse non è suo, forse è di qualcun altro, ma infondo un sogno, come una candela, può alimentare a milioni di anime.
Cinquant’anni dopo la morte del Reverendo King, sugli scalini del Lincoln Memorial, è il discorso del 44esimo Presidente degli Stati Uniti d’America ad essere atteso. Il primo presidente afro-americano.
Siamo nel 2008, e quello che è accaduto sembra davvero incarnare lo spirito del sogno americano, una landa in cui «tutto è possibile» così come cita la sua centenaria fama. Un presidente che vincerà il premio Nobel per la Pace solo un anno dopo, per il suo impegno nel favorire il multiculturalismo e la cooperazione tra i popoli, in un decennio in cui gli estremismi dilagavano e gli USA erano ancora feriti dagli attacchi del 2001.
Un mandato controverso il suo, difficile per definizione, ma sempre guidato da quello che poi è diventato il suo motto: YES WE CAN.
«Sappiamo che la battaglia davanti a noi sarà dura, ma ricordate sempre che non importa quanti ostacoli ci siano sulla nostra strada: niente può resistere nella via del potere di milioni di voci che chiedono di cambiare».
Queste parole, con cui Obama proclama l’inizio del suo mandato sono, secondo me, le parole che incarnano il senso più mistico della missione impossibile e dei sogni che si realizzano. Un sogno questo che sembrava impossibile si realizzasse solo cinquant’anni fa e che oggi abbiamo avuto la fortuna di testimoniare, che domani noi potremo raccontare.
Un sogno che non poteva essere realizzato da una persona da sola. Un sogno che aveva bisogno dell’energia di centinaia di migliaia di persone, di voci, di paure, della determinazione a lottare e a non arrendersi.
Una missione che sembrava impossibile da realizzare, un sogno talmente difficile anche solo da fare anche quando si dorme. Eppure…
Un sogno che ci fa capire, quanto importante sia credere in quello che oggi ci sembra impossibile, in quelle lotte che oggi fatichiamo a portare avanti, come quelle per l’ambiente, per la pace, per l’integrazione, che probabilmente non vedremo realizzate in pochi anni. Martin Luther King, presumibilmente sapeva che le sue parole avrebbero raggiunto anche il cuore di chi poteva prendere in mano la sua eredità e ispirato milioni di persone.
Per realizzare un sogno impossibile ci vuole forza e determinazione, quelle che ti fanno andare avanti anche quando tutti sembrano tornare indietro, anche quando il vento tira contro vela e la tempesta impedisce la guida delle stelle.
Per realizzare un sogno impossibile ci vuole coraggio, il coraggio di guidare con l’esempio, di prendersi le proprie responsabilità anche quando fa male, di azzardarsi verso una direzione anche senza una mappa tra le mani.
Per realizzare un sogno impossibile ci vuole fede. La fede che siamo in grado di riporre in altri esseri umani, in quelli che ci sono oggi e in quelli che ci saranno domani. In quelli che non sono ancora nati e sono solo un pensiero nella mente di una qualche divinità o nel grembo della terra.
Per realizzare un sogno impossibile ci vuole amore incondizionato. Ci vuole agapi e ci vuole caritas, l’amore del conforto e quello del sostegno. Ci vuole l’amore per la vita e quello capace di perdonare, prima di tutto se stessi e poi il resto del mondo, perché non è con la retorica dell’odio che si realizzano i sogni impossibili, ma creando lo spazio e costruendo la strada perché il prossimo, chiunque esso sia, possa proseguire il nostro cammino.
Si dice che nella vita dell’uomo c’è un punto di partenza ed un punto di arrivo, di solito riferiti all’inizio e alla fine di una carriera. Io, invece, sono convinto del contrario: il punto di arrivo dell’uomo è il suo arrivo nel mondo, la sua nascita, mentre il punto di partenza è la morte che, oltre a rappresentare la sua partenza dal mondo, va a costituire un punto di partenza per i giovani. [Eduardo de Filippo, 1986]
È il 2015, Ottobre.
A Washington le case brulicano di decorazioni per la festa di Halloween.
Il paesaggio è meraviglioso, enorme e spazioso, difficile da accettare quando non sei abituato a quelle vastità. In lontananza, le colonne del Lincoln Memorial si stanziano in mezzo al verde, maestose. Guardando in quella direzione, immagino quelle grandi personalità che si sono susseguite su quegli scalini. Sono grata di aver visto il Lincoln Memorial, che era il mio sogno impossibile di adolescente, quando leggevo la biografia di Martin Luther King, vedevo i video del suo magistrale discorso e speravo un giorno di poter vedere con i miei occhi quel luogo e di poter trarre ispirazione dal coraggio delle sue parole, che lì aleggiano ovunque.
Ogni luogo del mondo ha i suoi fantasmi, ma non tutti fanno paura.
Cristina Di Ponzio
Ekis Cantera